A OGNUNO DI NOI VENIVA CONSEGNATA, UNA BICI, NUOVA O SGANGHERATA...
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A OGNUNO DI NOI VENIVA CONSEGNATA UNA BICI, NUOVA O SGANGHERATA

A ognuno di noi veniva consegnata, dopo i primissimi anni di vita, una bici, nuova o sgangherata, della misura giusta o troppo grande, con le rotelle o senza, e sopra di essa scoprivamo l’eccitamento di spostarsi nel vento autonomamente, liberi, indipendenti e silenti.

Soli potevamo allontanarci per metri, chilometri, perlustrare il nostro ambiente imparando naturalmente ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni e decisioni. Poi però, quando abbiamo raggiunto l’età per condurre uno scooter, una moto e peggio ancora un’automobile, un condizionamento culturale potente e pervasivo ci ha fatto d’un tratto cancellare dalle possibili modalità di trasporto la bicicletta, che da quel momento abbiamo abbandonato tra la ruggine e l’oblio in cambio della comodità di un abitacolo riscaldato, della velocità inutile e nociva, degli ingorghi, delle nuvole di smog, le multe, gli incidenti e i guasti irreparabili che ogni mezzo a motore dispensa. Nel tempo però qualcuno di noi, per caso, per amicizia o per amore, è uscito dal sistema auto-motocentrico che ci è stato imposto e questo grazie alla riscoperta della bicicletta.

Ognuno a modo suo è giunto a questa geniale soluzione, a me per esempio capitò così:

Riscoprii la bici quasi per caso, avevo notato un tratto di pista ciclabile appena realizzata lungo gli argini dell’Aniene e volevo comperarne una per fare delle passeggiate la domenica assieme alla mia compagna. Mi recai così al negozio che meglio conoscevo, proprio nel quartiere dove ero cresciuto e avevo girato e rigirato in bmx prima della maledetta età per il motorino che mi fece abbandonare la bici; fino a quel pomeriggio però.

Entrai da Bacco con la predisposizione d’animo di chi acquista uno skate o un paio di pattini, insomma un bell’oggetto per lo svago, non certo un mezzo di trasporto affidabile e più longevo di me. Ma il negoziante mi orientò subito su una bici di medio livello, avrei dovuto spendere una certa cifra, la questione si faceva seria ed era quello che lui voleva che capissi. Mi feci convincere dalla sua determinazione che divenne quasi rabbia quando dissi, dopo aver pagato, che ci saremo visti il giorno successivo, sarei passato con la macchina per ritirarla.

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Non l’avessi mai detto, mi prese per un braccio e mi spinse verso l’uscita:

”Ma cammina, vattene a casa in bici, che te la sei comprata a fare?”, io rimasi confuso, pensai a tutto il tragitto da percorrere e sbottai: “ Oh, ma io abito al Nuovo Salario!”, ma lui non si impressionò affatto, anzi mi spinse ancora più violento fuori dal negozio: “ Ma sali su quella sella e pedala…”. Non mi rimaneva che ubbidire. Quando arrivai a casa ero un bagno di sudore ma guardai l’orologio e rimasi di stucco: con la moto avrei impiegato lo stesso tempo. Dal giorno seguente scoprii quanto fosse più semplice, salubre e divertente andare al lavoro in bici piuttosto che con la moto o il motorino, ero rimasto folgorato sulla via… Nomentana e pian piano abbandonai completamente qualsiasi mezzo a motore.

Utilizzavo la bici per qualsiasi spostamento in città, pensavo di essere l’unico,

genio, pazzo, che aveva riscoperto questo magnifico mezzo, in barba a tutte le lamiere bloccate del traffico romano. Mi sentivo felice ma completamente isolato nella mia nuova passione e in effetti di ciclisti in giro se ne vedevano ben pochi nella capitale. Gli automobilisti non ti vedevano proprio e quando accadeva non mancavano mai di strillarti di andare a lavorare, di andare sulle piste, sul marciapiede, di sparire all’istante. Cominciai a litigare sempre più spesso, non c’era altro modo per farsi rispettare e non morire sei o sette volte al giorno. Ma la cosa cominciava a pesarmi, il sistema non mi accettava e cercava in tutti i modi di espellermi come elemento alieno, costringendomi spesso sopra un marciapiede o sulla corsia di un autobus. Arrivai a tagliare per i prati pur di non percorrere Conca d’oro e il ponte delle Valli e confliggere ogni mattino col traffico a motore.

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Poi un giorno accadde qualcosa di meraviglioso, di magico,

che mi permise di conoscere altri ciclisti che si battevano sulle strade di Roma, come me, con cui poter condividere le gioie e le frustrazioni del nostro folle modo spostarci in città. Era una giornataccia di fine Maggio, avevo litigato con la donna e giravo senza meta per il centro; ancora oggi quando non ho voglia di pensare, di star male, inforco una delle mie bici e mi abbandono sui sampietrini scrollandomi di dosso il malumore fra le bellezze che regala Roma.

Il sole ormai era sparito dietro i palazzi umbertini di corso Vittorio, tutto mogio sbucavo contromano da via del Pantheon quando, nell’attraversare il corso, una strana atmosfera pervase la strada. Volsi lo sguardo verso il Gesù dove un vuoto, un silenzio chiassoso sembrava arrivare arrembando e portando un’aria nuova, pulita e gioiosa. Vidi le prime bici in avanscoperta, andavano e venivano, procedevano a zig-zag occupando tutta la strada, noncuranti e giocosi come se il traffico non esistesse più in quel tratto spazio-temporale.

Poi arrivò la massa: decine, centinaia, che dico?

Migliaia di bici di ogni stampo da non credere ai propri occhi: grazielle infiorate, Atala da corsa deflorate, vecchi cancelli, tandem, bici a due piani, d’epoca, tricicli e bici con bambini. Rimasi di sale a guardare quella massa fantastica che conquistava la strada, ogni spazio ritornava di colpo vivibile grazie a quello sciame di farfalle festose e infestanti, uno stormo dinamico, multiforme, dove ogni individuo era autonomo e indipendente, ma tutti collegati fra loro da un pensiero superiore a formare una massa unica, un solo essere mosso da unica necessità, un bisogno, un doppio sogno: rimanere umani nel condividere la strada e liberarla dall’occupazione coatta delle scatole a motore.

Mi lasciai attraversare completamente dallo sfilare di campanelli e voci, visi e sorrisi che sembravano arrivare dal paese delle meraviglie. Era la seconda edizione della Ciemmona di Roma e io non ne avevo la più pallida idea, fui incantato finché le ultime file di bici non lasciarono spazio alle auto inferocite. Non potevo fare altro che seguire quella carovana festante e conobbi così diverse persone con cui avevo sicuramente molto da spartire.

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Erano gli albori del ciclismo urbano romano ma scoprii di essere un novizio,

erano anni che altri si battevano per la ciclabilità, l’Angelo Mai era appena stato chiuso e ci fu la diaspora della Ciclofficina Centrale, la nascita dei Ciclonauti, la mitica Don Chisciotte, al Gazometro la mia preferita e i primi ciclopic-nic al Pincio. Mi lasciai poi con la compagna dell’epoca, ma avevo trovato la bici come risorsa, come sorgente gratuita di endorfine e socialità sempre a disposizione, a patto di volersi sporcare le mani. Quel giorno poi avevo scoperto un mondo parallelo, ancora sommerso, di persone sane, vive, fuori dagli schemi tossici calati dall’alto, un gruppo destinato a crescere fino a emergere, come oggi, dai gas di scarico nel traffico e conquistare sempre più spazio, visibilità, rispetto.


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