MARCO BALDI: L'ANDATURA 'MASAI' È COMPETITIVA CON QUALUNQUE MEZZO - Salvaiciclisti Roma
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MARCO BALDI: L’ANDATURA ‘MASAI’ È COMPETITIVA CON QUALUNQUE MEZZO

Marco Baldi, genovese di nascita, “deportato” a Pomezia nel 1971, vive a Roma dal 1990. Sociologo, da 27 anni lavora al Censis  dove dirige il Settore Economia e Territorio. Si sposta con  tutti i mezzi possibili: bici da corsa, da città, MTB, monopattini pieghevoli e off-road, vecchie moto e scooter. Non disdegna spostarsi di corsa sostenendo che, all’interno dei quartieri, l’andatura “Masai” (max 10 km/h anche in abbigliamento non sportivo),  sia  competitiva con qualunque mezzo. Possiede un’auto multispazio (per caricarvi gli altri mezzi quando ne ha bisogno).

Ho 54 anni, vivo nella “First Valley” romana con Carla (la mia compagna), Matilde (figlia tredicenne), Tommaso e Gregorio (gemelli di 8 anni) a cui si aggiungono le au pair che si alternano anno dopo anno nella nostra casa.

Le mie biciclette

Nel mio parco bici c’è una specialissima in carbonio di 7,5 kg, una bici da triathlon con le appendici al manubrio, una Battaglin quasi vintage, una MTB John Tomac (il  leggendario campione americano). La bicicletta con cui mi sposto in città è una vecchia MTB che, adattata all’uso urbano, svolge un lavoro dignitosissimo. A queste si aggiungono le 7 bici dei miei familiari e due spin-bike. Ospitando due biciclette di amici arriviamo a 16 mezzi. Sembrano tanti, ma non è così: sto facendo un pensierino ad una bici a pedalata assistita…

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Il lavoro

Nel casa-lavoro-casa percorro 28 km: una goduria, quasi un piccolo allenamento. All’andata sono 30’ passando per veloci linee esterne; al ritorno attraverso Villa Borghese, Prati e poi il Parco del Pineto (circa 40’). Non sono un “forzato” della bicicletta, se piove prendo lo scooter (la macchina mai). Uso la bicicletta in città perché è pratica, rapida, economica e… perché mi piace. Mi sposto spesso in giacca e cravatta, con casco e fascette rifrangenti ai pantaloni. In inverno non ho nessun problema di sudore. In estate indosso le polo: entro a Villa Ada, mi rinfresco, cambio la maglietta e vado in ufficio.

Tornando a casa c’è salita: pazienza, arrivo e mi faccio una doccia. Non so esattamente cosa pensino di me i colleghi, e in ogni caso mi sembra si siano abituati. In passato non usavo la bici in città pensando agli inquinanti. Poi per fortuna ho capito che i ciclisti non sono più esposti degli altri.

L’inizio

Mentre mia madre stava partorendo mio fratello Guido (di 4 anni più giovane), io pedalavo su una Graziella rossa nel cortile dell’ospedale. A Pomezia mi hanno regalato una bici da cross a sella lunga. Un giorno il manubrio si è sfilato,  ho rotto tutto (la bici e me stesso) e mio padre ha deciso di chiudere il capitolo bici. Tempo tre anni e – sobillando mio fratello – ho inscenato una manifestazione di protesta: “Rivogliamo le bici!”. Niente da fare, ma a 16 anni ho ereditato una vecchia Olmo a 5 rapporti con la quale salivo da Pomezia a Monte Cavo.

Poi, lavorando con il fratellino in una piantagione di tabacco, abbiamo messo da parte i denari per delle vere bici da corsa (due “cancelli” in acciaio) e siamo partiti per il giro di Sardegna. La “Genna Silana”con 25 kg tra bici e bagagli (e con il 42X21 come minimo rapporto) credo che non la dimenticherò mai. Durante l’università ho un po’ abbandonato la bici. L’ho riscoperta nel 1996 in chiave sportiva: trasferte, granfondo, allenamenti, 10.000 km/anno. Poi, nel 2007, la folgorazione del Triathlon: 6 anni di gare fino a che il mio tibiale posteriore ha fatto crac. Ora mi è rimasto il casa-lavoro-casa, l’uscita della domenica (100 km a tutta con i vecchi amici), le ciclabili e i parchi urbani con i bambini. Non poco, tutto sommato.

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Perché è importante?

Siamo in una fase di passaggio delicata: aumentano i ciclisti urbani e cresce la domanda di politiche adeguate. L’uso della bicicletta come mezzo di trasporto può essere la “killer application” che fa  fare alle nostre città uno scatto in avanti di sostenibilità e qualità della vita. Questo non solo per lo shift modale di una quota di pendolari, ma anche perché la loro presenza sulle strade determinerà un ripensamento del modello attuale di mobilità. Costringerà le autorità cittadine a monitorare la velocità delle auto e la distrazione da smartphone, a manutenere le infrastrutture, ad intervenire sui punti di maggior pericolosità, ad istituire zone 30 nei quartieri, a destinare a disegnare bike lines e, conseguentemente, a reprimere la sosta in doppia fila. I ciclisti “costringeranno” le città a migliorare.

Anche per questo mal sopporto l’idea del “confinamento” dei ciclisti in una strutture dedicate lasciando che tutto il resto rimanga così com’è. Il ciclista è un’utente della città come gli altri. Si sposta perché deve farlo, utilizza un veicolo, usa le strade che ci sono condividendole con gli altri. E’ un bene immaginare qualche grande dorsale ciclabile (se qualcuno si degna di tracciarle in maniera sensata), ma per il resto sarei davvero contento… di non finire in una sorta di “riserva indiana”!

Cosa puoi consigliare ai giovani?

La crisi economica ha ridato fiato all’uso della bicicletta. Tutte le parole d’ordine imposte dalla crisi (sobrietà, semplicità, frugalità, essenzialità) si adattano alla perfezione al mezzo che maggiormente amplifica le potenzialità del corpo umano. I giovani l’hanno capito. Un tempo si giravano dall’altra parte (“ecco uno sfigato”), ma oggi è il contrario: percepisco entusiasmo e voglia di emulazione. Consiglio la scelta di un mezzo di buon livello (pedalare deve essere un piacere). Poi servono buone coperture, buoni freni, pompa da telaio, antifurto, luci potenti, campanello, specchietto a sinistra.

Non sono inutili orpelli da pensionati: lo dice uno che in città non ci rinuncerebbe mai, pur avendo toccato in corsa i 98 km orari. E poi, tanta micro-manutenzione: si scoprono i difetti e … si “fraternizza” con la bici. Più arduo è dare consigli a chi vorrebbe fare agonismo. Qualcuno ha scritto che con la morte di Michele Scarponi muore anche il ciclismo perché nessun genitore lascerà più praticare questo sport ai propri figli. Non credo andrà così, ma il problema è serio.  Qualcuno parla dei “ciclodromi”: può essere una soluzione, anche se rimango dell’idea che il ciclista nasce sulle strade e lì deve rimanere. Cercate però di uscire in gruppo: sarete più visibili e meno esposti alla sopraffazione di certi automobilisti.

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E a chi vuole prendere la bici per la prima volta a Roma?

Pedalando in città si può scegliere di “aggredire” la strada e il traffico o di “subirli”. Dipende dalle attitudini soggettive. La soluzione intermedia è la più pericolosa. Per le persone che vorrebbero provare ma hanno paura consiglio di prendere confidenza pedalando la domenica sui “parchi lineari”. Sulla ciclabile del Tevere ad esempio, o sulla ciclabile Monte Mario – Monte Ciocci. Poi si può iniziare anche su strada avendo cura di perfezionare a poco a poco i propri itinerari includendo pezzi di ciclabile dove esistono, parchi urbani, marciapiedi larghi e poco frequentati dai pedoni.

Senza fretta, fermandosi quando occorre, comportandosi come pedoni nei casi di attraversamenti o svolte a sinistra. Salvaciclisti fa un ottimo lavoro ma la sicurezza assoluta non esiste per nessun veicolo e personalmente ho più paura in moto. In ogni caso, a fronte della più che legittima domanda di sicurezza, io continuo ad incrociare ciclisti che vanno in giro con mezzi inadeguati, con le ruote sgonfie, e che si spostano di sera senza luci.

 Ciclista, mettiti a destra!

Ottimo consiglio, peccato che il lato destro delle strade, l’ambiente naturale del ciclista,  si trovi in un penoso stato di degrado. Il ciclista viaggia a destra, si protegge a destra, pensa a destra, si nutre a destra, vive a destra. Ma a destra si scarica e ristagna tutto “lo sfrido” della nostra società dei consumi. A destra gli “amatori” (è bellissimo il nome che si sono dati gli agonisti non professionisti: in effetti loro la bicicletta la “amano”) trovano carogne di cani, gatti, istrici, porcospini, volpi, cinghiali, tassi. Trovano pezzi di pneumatico, tantissimo ferro e gomma.

Trovano  paracarri divelti e tante lapidi, anche quelle dei loro amici. E poi trovano prostitute e poveracci senza casa con cui scambiano battute al volo. In fondo li accomuna, lì sul lato destro,  il modo in cui vivono e faticano. Poi c’è la destra dei ciclisti urbani, con le sue buche e i suoi tombini sprofondati. Con gli autobus che li affiancano silenziosi e minacciosi, con i SUV in doppia fila, con le rotaie, con i furgoni che scaricano, con le ciclabile improbabili e scassata, con il vetro, tanto vetro, quasi inspiegabile.

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